Hotel resilient
Hotel resilient

La pandemia dovuta al Covid 19 è senza dubbio stato il momento in cui tutti abbiamo dovuto fare i conti con una crisi diversa da quelle che fino ad ora ci hanno colpito. Qualcuno parla di evento imprevedibile mentre altri lo avevano previsto e avevano ipotizzato in tempi non sospetti un cambio nelle abitudini private e lavorative.  Personalmente faccio parte della seconda linea di pensiero. Per questo motivo ho concentrato la mia attenzione su studi, ricerche e progetti che ruotano attorno alla criticità del cambiamento climatico e dell’ambiente.

Ecco che in questo ultimo anno la riproposizione della parola “resilienza” o meglio di “comunità resiliente” ha scalato ogni classifica e sicuramente ha attivato un nuovo paradigma ed un diverso pensiero associativo.

Ma cosa significa resilienza?

Tra le varie definizioni, questa mi pare molto corretta:

la capacità  di un sistema, una comunità  o una società  esposti a catastrofi di resistere, assorbire, adattarsi e riprendersi da suoi effetti in maniera efficiente e tempestiva, attraverso la protezione e il ripristino delle sue strutture e funzioni essenziali“.

L’ufficio riduzione dei rischi da disastro dell’ONU aveva proclamato il 2015 come anno della resilienza per iniziare a comunicare e sensibilizzare l’intera civiltà sulla tematica delle reazioni alle crisi. Eppure per la maggior parte di noi ha ritenuto questo tema residuale e fantascientifico. Il 2020 è stato invece l’anno che ha aperto le nostre sinapsi su questo concetto, semplicemente perché come un calabrone, la pandemia ci ha punto nel vivo.

La “comunità” degli albergatori e del settore dell’ospitalità in genere è tra le vittime più colpite da questa pandemia.

Ecco le domande che ci dobbiamo porre:

  • Quale deve essere la reazione dell’industria del turismo?
  • In che modo questa reazione si deve adattare al cambiamento?
  • Il cambiamento è irreversibile?

 

La prima reazione alla crisi pandemica, è stata l’applicazione delle norme e delle disposizioni anti-covid. Abbiamo pensato che tutto potesse risolversi utilizzando paratie di plexyglass, distanziando i tavoli e riducendo la capacità delle strutture.  E’ così che il mondo dell’ospitalità ha dovuto reagire immediatamente dopo il primo lockdown. Queste misure si sono rilevate insufficienti ed aleatorie perchè l’effetto non sarebbe stato temporaneo, ma permanente.

Io stesso mi sono comportato in modo contraddittorio lavorando nel settore della progettazione del mondo dell’ospitalità perché ho avuto a che fare con clienti che volevano adeguare le loro attività, ed ai quali ho dato consigli appunto temporanei cercando di farli spendere il meno possibile e più in termini di diversificazione dei servizi che di modifiche strutturali, ed allo stesso tempo con aziende che mi hanno chiesto di progettare quei sistemi di modifica temporanea per l’adeguamento. Da una parte consigliavo agli albergatori di non investire in gingilli e dall’altra parte disegnavo i gingilli stessi per esigenza del mercato.

Quello che seriamente ho invece cercato di consigliare al mondo dell’ospitalità è stato di iniziare a pensare che ci fosse l’occasione per mettere in pratica un nuovo modello di sviluppo e che si dovesse osare e diventare visionari anche nel momento economico meno favorevole e propizio.

  • Vi siete interrogati su quello che non aveva funzionato e su quello che invece potrebbe funzionare da ora in poi?
  • Sareste pronti ad abbandonare il consueto modello di ospitalità trasformando in una “comunità resiliente” a servizio, valorizzazione e tutela del territorio?
  • Da dove si deve partire per iniziare a cambiare il modello dell’albergo come luogo di esclusività a quello di inclusività?

L’hotel ha una parvenza di luogo inaccessibile per molti, una fortezza all’interno della quale solo pochi possono entrare. Questo ha portato all’esplosione del fenomeno extra-alberghiero per il quale l’ospite è andato alla ricerca di luoghi diffusi e più vicini al sapore del territorio e che ha messo in crisi le strutture ricettive tradizionali.

Ricercare luoghi più vicini al territorio sia nella location che nel mood è significato appunto di iniziare a vedere il futuro dell’ospitalità in modo diverso e ricercare contenitori non più asettici e standardizzati che vanno bene per ogni luogo e che fino a poco tempo fa mentalmente erano ritenuti luoghi sicuri per soggiornare. Si pone quindi alla base il problema di diffusione dell’ospitalità nei tessuti urbani e territoriali e l’evidente ingestibilità ed inappetibilità degli investimenti nei grandi contenitori dell’ospitalità.

Non rimane più tanto tempo. Dobbiamo prendere delle decisioni. Siamo pronti a nuovi modelli?

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